Esperienze reali Produzione

Siamo tutti pedine di Pasquale Capuano

Nel 2020 (anno sfortunato) è uscito un piccolo lavoro di presentazione per un film in sviluppo che poi è stato trasformato in una specie di cortometraggio di 19 minuti. Ha partecipato a vari festival online qua e là, ed è in programma in altri che stanno per arrivare (si spera in presenza). Di seguito una lucida recensione del critico Alessandro Bertozzi che, tra tutti, ha davvero intercettato le sfaccettature di un lavoro molto più tetro e enigmatico di quanto molti abbiano realmente capito.

Udrà del tuo cantore
le commosse reliquie Sotto la terra argute sibilar
(Parini)

Un lamento nero, buio, emerge nella notte.

Un SONORO FUORI CAMPO colmo di un groviglio di respiri affannosi viene scortato a folle velocità da una vettura contro corrente, lungo un ruscello d’asfalto. Il PRIMO TAGLIO, inatteso compie un ribaltamento del campo visivo, così la superfice del fotogramma ci consegna un volto maschile; un PRIMO PIANO: livido, scarnificato, incollato al volante. All’interno di questo involucro di lamiere, la nostra attenzione è catturata immediatamente dalla sensibilità di un gesto, una carezza lambisce una fronte, ecco scorgere la sembianza trasfigurata di una donna-madonna di trecentesca memoria, molta cara alla pittura senese.
Respira, resisti amò – sussurra una voce.

Sapientemente uno sguardo meccanico PANORAMICA verso sinistra. Questa movenza incrocia una luce dall’alto, una scala di grigi incide un seducente collo allungato, modiglianesco. Svelando, così, un ventre rotondo, gravido difeso da un chiaro scuro di una leggera veste.

Basterebbe questa prima sequenza di un minuto e venti secondi per renderci conto di aver incontrato una personalità nuova, originale, dotata di una vera vocazione. La regia di Paolo Martini ci allontana dal convenzionale e dal ripetitivo da cui spesso veniamo sommersi e con genialità cattura la nostra attenzione con un’ anonima locandina, che ricorda un certo cinema tedesco degli anni trenta.

Alcuni grafemi, ci suggeriscono alcune coordinate geografiche, indispensabili per partecipare alla PANORAMICA ORIZZONATALE verso destra e come per magia veniamo catapultati prepotentemente all’interno del confine del microcosmo spaziale del comune di Roccalunga. Qui, tutto ruota, intorno alla figura indecifrabile di Pasquale Capuano. La delicatezza dei movimenti di macchina ricorda i virtuosismi di Aldo Tonti, direttore della fotografia, nel film: Ossessione di Luchino Visconti del 1943.

Ancora un corpo meccanico ruggisce ad alta velocità. Entra ed esce dalla cornice inchiostrata di nero dell’inquadratura, creando così una dialettica dei due spazi: CAMPO e FUORI CAMPO – visibile non visibile. Questo sincronismo dinamico – sonoro desta l’attenzione di due presenze, che entrano in scena con un silenzioso accordo temporale. AlIe loro spalle spicca una prospettiva masaccesca, una scarnificazione muraria sacra, partenopea. Lo sguardo di un curato incrocia il volto di una matrona del volgus. Sembrano incarnare la figura del dicitore manierista, indicando così agli spettatori l’azione che si svolge nel quadro. IL SUONO DIEGETICO, liturgico di una campana introduce un presagio, rafforzato dal risuono di un telefono di hitchcockiana memoria. Un MONTAGGIO (A SINTAGMA) PARALLELO ci introduce, grazie alla figura anacronistica di Gegè Santoro, all’interno di un parallelepipedo bianco.

Piccoli fregi triangolari, dozzinali, ci delimitano un confine cittadino. Questo isolamento acustico ci offre un suono di mani, quasi a cadenzare una PANORAMICA VERSO SINISTRA. Una sorta di trasfigurazione etnografica emerge dall’obiettivo della macchina da presa. Scrutiamo corpi, in un’abbandonata gravità malinconica, indaffarati in una tombolata e sospinti dal desiderio di qualche beneficio. Astrazioni numeriche, scortano questo movimento visivo. Lo spettatore, sembra quasi desideroso di riuscire a plasmare questi suoni: “onomatopeiche numeriche”, viene in mente l’esperimento futurista di Balla e Cangiullo: “Palpavoce” del 1914.

47 o muorto.

Basterebbe questa esternazione fonetica connessa ad una mimesis scenica per rimanere rapiti dal personaggio enigmatico ed ambiguo di Esposito, un superbo Giacomo Rizzo.

Similmente, il nostro sguardo viene richiamato dalla metamorfosi visiva del PRIMO PIANO del sindaco Luigi Pastore, sapientemente illuminato in CONTROLUCE, non appena informato del problema da risolvere. Questa dissolvenza visiva, capace di passare da un registro comico ad uno drammatico è dovuta alla fluidità camaleontica di Francesco Paolantoni. Stimolante e fondamentale per lo sviluppo narrativo è l’inquadratura in cui il sacerdote attonito, si trova di fronte al reliquiario vuoto. L’atmosfera ricorda certe tinte del male, dell’universo di William Friedkin.

Alla fine la macchina si ferma, finalmente vediamo nella loro interezza due corpi: Mimmo (Marcello Prayer) un macilento giovane disperato, “uomo in rivolta” che sorregge la moglie gravida come una pietà michelangiolesca. Davanti a lui, un personaggio che sembra essere uscito dalla famiglia dei saltimbanchi di Picasso: il Maciaro, un contadino stregone (interpretato da Giobbe Covatta in stato di grazia), unica persona in grado di liberare lei e il bambino. Infatti il giovane coniuge ha deciso di rivolgersi a lui, quando ha scoperto che la moglie Anna in cambio di un lavoro ha accettato che il nascituro fosse “incantato” dallo spirito di Pasquale Capuano.

All’interno di un eremo prefabbricato, una sorta di asse di legno dinanzi a noi, ci svela il piccolo cranio latteo di Roccalunga attorniato da scottanti ceri e osservato dalla simultaneità di immagini sacre. Con una CARRELLATA INDIETRO vediamo il piccolo “memento mori” rimpicciolirsi e l’attenzione dello spettatore è indotta ad osservare un campo più ampio. Questa messa in scena ci offre uno spazio segreto: intrecciato tra ritualità pagana e cattolicesimo dell’Italia del sud. Distesa, emerge come una vittima sacrificale, l’immagine subliminale di Anna (Aura Ghezzi), la quale in un immersione neorealista ci offre un volto abbandonato allo spasimo, privo di peso, un corpo straziato in pieno travaglio.

Mani da patriarca terragno ritmano misteriche litanie perdute nella notte dei tempi, attraversando così sconosciute profondità. La macchina da presa entra nei muliebri occhi, i quali vengono frazionati da una carta: “l’appeso”, un tarocco enigmatico che sembra voler indicare una nuova via, un nuovo punto di vista per rinvenire un perduto equilibrio dell’anima. Il volto della ragazza, ormai inerme si dissolve nel piccolo cranio mefistofelico, un corpo ruotante celeste irrompe in campo vegliando così, su diurni scenari metafisici, un corridoio sacro, maschera dell’inquietudine tratteggia il volto di un prete. In questo continuum di frammenti visivi cadenzati da antropici suoni, il tentativo salvifico di Mimmo, un San Michele postmoderno viene bloccato dall’entrata in campo di un’altera rivoltella, ovvero metafora di un potere sempre più malavitoso e prevaricatore, delineato dai volti grotteschi di “amministratori luciferini”. Due schioppettate sorde esplodono nel vuoto. Le tinte della borgata napoletana si tingono di un silenzio luttuoso.

All’interno di questa intelaiatura iconica rimaniamo rapiti dalla capacità innata del regista di riuscire a plasmare una partitura musicale per immagini, cadenzata dal sismografo lunare del compositore: Egisto Macchi. Consonanze di luoghi e dissonanze di corpi sembrano emergere dalle scientifiche pagine del pentagramma letterario antropomorfo di Ernesto de Martino (basti pensare a Il mondo magico: prolegomeni a una storia del magismo del 1948; Sud e magia del 1959). Simmetricamente i documentari cinematografici del maestro Luigi Di Gianni (Magia Lucana del 1958; Nascita e morte nel meridioneS.Cataldo del 1959; La potenza degli spiriti del 1968) emergono prepotentemente individuando un focus territoriale ed illuminotecnico del sud, increspato di miserie ataviche e ritualità magiche.

Paolo Martini si impadronisce di queste archetipe reminiscenze con una estetica legata ad un impatto antropologico, prelevando storie vere e poco conosciute dalle loro cornici del mondo reale per ricomporle in un mosaico livido e intenso. Ecco, dunque, un’allegoria anamorfica dei luoghi deputati del potere, ove maschere della commedia dell’arte, guitti macabri, impreziositi da un conformismo esoterico oscillano con il piccolo oracolo trasformando, così, una credenza popolare in un dogma comunale.

Emergono tutte le radici apuane nello sguardo del regista, siamo di fronte ad un’ innata capacità scultorea nel modellare l’anatomia dell’immagine. La sua scansione retinica riesce a indagare sopra e sotto la pelle. Si pensi alla figura femminile partoriente, sembra di intravedere la musa malata di Charles Baudelaire in tutta la sua verdastra e cianotica carnalità.

Pulsa, al tempo stesso, il turgido ventre al suo interno. Un’amniotica liquidità pare donarci una sinopia acquatica raffigurante: lo studio embrionologico raffigurante un feto nell’utero (Leonardo da Vinci 1504 – 1508). Affiora ancora una peculiarità scultoria, ovvero quella di scolpire il tempo. Il regista riesce a scardinare le certezze bergsoniane (tempo spazializzato e durata reale) proponendo così una nuova dodecafonia temporale, donando un nuovo ritmo alla successione delle lancette degli orologi cinematografici.

Agendo sulla durata, riesce a manipolare il tempo filmico creando delle dimensioni simultanee. Questa struttura dell’alternanza narrativa, viene usata per enfatizzare gli effetti di contrappunto, di eco, di tensione e amplificazione drammatica. Questo è dovuto anche al fortunato incontro scrittorio Martini – Calandriello, i quali riescono a foto – grafare, per meglio dire a scrivere con la luce una sceneggiatura enigmatica, una sorta di selva magica, basata sul dispositivo dell’ambiguità. Restiamo rapiti dai dialoghi, arabeschi fonetici che graffiano i fotogrammi creando così una polifonia partenopea. Il piccolo “uovo cosmico” di Leonardo, metafora del nascituro, si è dovuto arrendere. Il suo cordone ombelicale è stato risucchiato dal magnete perturbante e diabolico del piccolo Pasquale.

Anche lui come tutte le “pedine antropomorfe” della grande tombola di Roccalunga si è dovuto sottomettere alla logica sottesa del potere.

Alessandro Bertozzi

Alessandro Bertozzi si diploma all’Accademia di Belle Arti di Firenze per poi studiare regia e sceneggiatura presso l’Accademia Internazionale per le Arti e le Scienze dell’Immagine de L’Aquila, specializzandosi in produzione dell’immagine. Scenografo teatrale e cinematografico è professore di storia dell’arte moderna e contemporanea a Torino. Autore di testi critici, ha indagato il rapporto tra arte e mercato col video “La Carne dell’Arte”, 2007, Museo MUSPAC, L’Aquila. Ha frequentato corsi e collaborato con registi e sceneggiatori come Sergio Bazzini, Guido Chiesa, Luigi Di Gianni, Stephen Natanson, Jacques Perrin e Francesco Rosi.

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